קהילת דובנא

CIBO

CIBO

 

Torta al cioccolato, insalata di uova con erba cipollina, polpettine e borsht freddo, la minestra di barbabietole che lei preparava per papà, versando lentamente il rosso intenso dentro un bicchiere alto. Ricordo il grano saraceno, di cui odiavo odore e aspetto, e d’inverno la zuppa di piselli accompagnata da pane nero casereccio, sfregato con l’aglio e intinto nel liquido verdastro e denso.

La “tortiera magica”, in cui cuoceva soffici e candidi ciambelloni, oggi occupa quasi metà della mia madia. Teglie di pyrex, che lei, da quando papà è mancato, ha messo via tra coperte e cuscini; dopo la sua morte, ho portato tutto da me. Il forno regalatole da papà prima di andarsene, ora festeggia le nozze d’argento e io cerco di convincere i nuovi inquilini che questo è il meglio sulla piazza. Se così non fosse non lo avrebbe comprato. Marchio francese. “ Che me ne faccio di un forno extra lusso?”

Il cibo, ho imparato nel primo anno di psicologia, è il legame primigenio, il bisogno primitivo, la conversazione più intima e universale tra madre e figlio. Quello degli adulti svanisce in un batter d’occhio e solo un lieve gusto rimane sospeso sulla punta della lingua, fino alla pietanza successiva; un granello resta incastrato nella cavità di un dente che non hai ben pulito, finché uno stuzzicadenti non lo estrae.

 “Noi questo non ce l’avevamo”, era la frase di condimento di ogni nostro pasto.“È vietato buttare via il pane!” “Chi ha bisogno di andare al ristorante quando la casa è piena di cibo?”  “Sai quanto lavora duro papà per darvi il necessario?” “Perché non prepari il brodo per la bambina?”

Come si monta a neve l’albume per una bella meringa; cosa hai messo esattamente nella torta di cioccolato preparata per il compleanno dei nipoti…Le mie figlie imparano a cucinare dai libri patinati. Non abbiamo trascritto le tue ricette al momento giusto, e ora non sappiamo a chi chiedere.

Vedo le dita robuste di mamma, con lo smalto rosa tenue alle unghie, che impastano su un asse infarinato; rammento lo sguardo meravigliato e beffardo quando in un ristorante scorse nel menù le bucce di patata ripiene presentate come una raffinata leccornia. Negli ultimi anni intrufolavo, nel suo frigorifero, i miei manicaretti; cercavo di distrarla con pietose bugie. “Ho preparato troppo”, “Voglio che assaggi e mi dici che ne pensi”, “Questo l’ha fatto la piccola Rivi, devi proprio, non si può offenderla.”

Quando era malata e l’ho riportata dal medico, mi ha chiesto di comprarle qualcosa da mangiare in un chioschetto qualunque. “Magari un panino”, continuava a dire, “Qualcosa di sfizioso, qualcosa che mi piace.” Con l’aggravarsi della malattia, papà chiedeva solo il gelato; il gusto vaniglia era l’unico in grado di lenire le piaghe della bocca infiammata e i tormenti dello stomaco.

Anni prima: io e il gelato. Gelato sullo sgabello in cucina, pigiama estivo con fiorellini rosa e seno appena sbocciato. Papà distribuisce il gelato nelle coppette e io allungo la linguetta rosa verso il minuscolo cucchiaino. Assaporo piano… piano… chiudo gli occhi. Li apro. Sospendo il piacere. Non voglio che finisca.

La volpe aveva mangiato all’inverosimile, per questo è rimasta intrappolata nel pollaio. Il fratello di Ali Babà aveva trafugato troppe cose dalla grotta, per questo non è riuscito a uscire. Non mi sono forse caricata eccessivamente? Bisogna sbarazzarsi del superfluo per andare oltre.