קהילת דובנא

UNA GIOVANE COPPIA

 

“Chiudete gli occhi” – chiede la conduttrice dello stage di terapeuti. “Rilassate il corpo, concentratevi sulla vostra parte più importante.” Sono distesa sul materasso, mi giro e mi rigiro. Mi accorgo che proprio così, in questa posizione fetale, mamma ha voluto trascorrere le lunghe giornate alla clinica Beit Rivqa. Percorro la superficie interna del mio corpo. Fuggo dalla testa, sfioro le vene, le arterie, perlustro le cavità del cuore, attratta come una calamita verso il bassoventre. Rehem, utero, non c’è scampo. Rehem è l’epicentro del mio corpo. Rehem come baricentro, rehem come punto di stabilità, rehem che permette di spiccare il volo, rehem alato. “Rahmanut, pietà”, mi ripeteva mamma per descrivere compassione, impotenza, persino amore. Abbiamo l’utero in comune io e lei, nel giorno in cui ho la prima volta le mestruazioni; condividiamo l’utero quando la porto dal mio ginecologo e la lascio sola per la visita. “Pensavo di non poter più avere figli”, racconta lei riferendosi ai mesi di nascondiglio. “Non avevo il ciclo.” Per smorzare l’imbarazzo aggiunge: “Ho perso anche i denti”; e io non oso chiedere se facevano l’amore.

Una giovane coppia, all’indomani delle nozze, imprigionata in un’intimità forzata, in mezzo ad altra gente che si serve di un unico vaso da notte, condivide bucce di patata e briciole di pane.

L’estremità della pagnotta è detta “bacio”. Nella mia infanzia chiamavo “bacio della Shoah” la crosta del pane, che mamma e papà si passavano da bocca a bocca per giorni, come fa la rondine con gli implumi. Custodivano i rimasugli tra i vestiti sdruciti, per non lasciarli seccare, e risparmiavano briciole di pane per il giorno in cui Luba Caspar avrebbe ordinato loro di andarsene per il proprio destino.

Si baciavano nel fosso? Si toccavano in quel tanfo? Nei giorni di shiv’a, Grishka mi ha portato una foto che non avevo mai visto. Appena dopo la guerra, mamma e papà in posa su una scalinata, in una città distrutta, entrambi smunti e vestiti di nero; la pancia tondeggiante di mamma testimonia una nuova vita. Ogni volta, sfogliando l’album risistemato dopo la sua morte, vengo rapita dall’utero che si rigenera. “Volevo abortire”, mi rivela a Praga in un momento di intimità, “ma il dottore, un ebreo da Dubno, sai, Greenzweig, era contrario.” “Troppi bambini ebrei sono morti” disse, “io non ne ucciderò un altro”; e così salvò mio fratello.

La notte sogno la mamma in ospedale, coperta quasi interamente, i suoi capelli neri, molto serena. Papà è al suo capezzale, sta seduto come in quella piccola immagine appesa all’albero delle fotografie in soggiorno; è alto, robusto, giovane e silenzioso. Alla caviglia della mamma è legato un nastro di nylon azzurrognolo e io, al momento giusto, dovrei tagliarlo. Un braccialetto, come quello dei neonati, il tubicino della flebo, il filo della vita, il cordone ombelicale. Solo le forbici che ho in mano segneranno la fine. Taglio?

Non voglio smettere di scrivere sulla mamma, non voglio dire addio. Devo continuamente plasmare i ricordi, ma l’odore del sacco e dell’oscurità lacerata mi inonda le narici. Devo impastare questo pane più volte per non farlo seccare; ripeto ad alta voce una frase derisoria di mamma, per mantenerne la giusta intonazione. “Ma cosa dici?” replicò a Shlomit, che prometteva di andare a bagnare regolarmente le piante, finché la nonna non fosse tornata a casa.

“Ma cosa dici?” Confrontando l’esattezza dei suoni, mi ripeto le sue ultime espressioni di forza. “Io ormai non tornerò a casa. Le piante sono tue.”

Anni fa, al ritorno dal medico di base, per un attimo si tolse la corazza e osò chiedere qualcosa per se stessa: “Promettimi solo di non farmi lasciare casa mia. Io rimango qui.”

Anche il poeta Yehuda Amichai aveva detto: “Sul mio letto voglio morire”. È spirato agonizzante, all’ospedale Hadassah a Gerusalemme.